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Con ‘La ferrovia sotterranea’ Colson Whitehead racconta l’America di Trump. E non solo quella

Durante il tour che lo ha portato in Italia per presentare La ferrovia sotterranea (Premio Pulitzer 2017 edito in Italia da edizioni sur), Colson Whitehead ha detto di aver impiegato diciassette anni da quando ebbe l’idea di questa storia a quando, effettivamente, questa non era più una semplice storia, ma un romanzo. Proprio perché, pur delineandone i caratteri principali, non si sentiva ancora pronto a raccontarla.

Cora e Caesar salirono a bordo e Lumbly li chiuse bruscamente dentro. Sbirciò tra le fessure nel legno. «Se volete vedere com’è fatto davvero questo paese, io lo dico sempre, dovete prendere il treno. Mentre andate a tutta velocità guardate fuori, e vedrete il vero volto dell’America.» Batté una mano sulla parete del vagone, per dare il segnale. Il treno partì con uno scossone. 

L’idea è partita da quella di raccontare di una ferrovia fantastica e, letteralmente, sotterranea: tante stazioni scavate in cunicoli,  ognuna delle loro fermata unisce un pezzo d’America. Il fine? Attraversare lo sterminato territorio americano, in cerca della libertà. Il tempo della storia che lega gli avvenimenti della Ferrovia sotterranea? Quella seconda metà dell’Ottocento in cui i padroni bianchi, negli stati sudisti, torturavano a sangue gli schiavi neri, che già si spaccavano la schiena nelle piantagioni di cotone, tabacco o canna da zucchero.

I terreni che Cora dissodava e lavorava un tempo erano appartenuti agli indiani. Lei sapeva che i bianchi si vantavano dell’efficienza dei massacri in cui avevano ucciso donne e bambini, strangolando il loro futuro nella culla.

La storia di Cora, giovane protagonista del romanzo storico (ma non solo, a questo punto) di Colson Whitehead, nata proprio all’interno della  piantagione che, dopo gli iniziali tentennamenti, si dà alla fuga in compagnia di Caesar e dalla Georgia attraversa diversi stati americani, è un racconto duro. Nella sua fuga Cora incontra diverse persone e da queste si sentirà di volta in volta assoggettata in modi sempre diversi, come a ricordarci che la schiavitù non è data solo dalle manette e dalle catene usate dai padroni.  Non si può omettere che, leggendo i primi capitoli, quelli sulla vita nella piantagione, ci si trova davanti ad un’esistenza in cui le giornate, sue e degli altri nella stessa condizione, vengono scandite dal suono delle frustate e della fatica inumana del lavoro, scene che portano a provare del male fisico. Non da meno, poi, quello psicologico: Whitehead ci mette davanti a delle considerazioni sul dolore da stress post traumatico che fanno venire la pelle d’oca. La ferrovia sotterranea, messa da parte la parentesi fantastica che costituisce sicuramente il mezzo per la salvezza, è un romanzo spietatamente vero, in cui c’è un susseguirsi di eventi e di facce prima sconosciute, poi familiari, che ci si presentano davanti all’improvviso, ognuna con la propria storia da raccontare.

Cora ricordò i racconti di Caesar sugli operai della fabbrica che erano ancora ossessionati dalla piantagione, che se la portavano dietro nonostante i chilometri di distanza. Era dentro di loro. Viveva ancora dentro di loro, aspettando solo l’occasione di venire a ferirli e tormentarli.

La narrazione è tutta giocata sulla contrapposizione di più elementi: bianchi/neri, sconfinato/sotterraneo, padrone/schiavo, cattivi/buoni. Infatti La ferrovia sotterranea è strutturata come un viaggio tra i vari stati americani: si parte da quelli del sud, in cui sono in vigore tratta e leggi razziali, per arrivare a quella libertà tanto agognata (ma per niente sgombra da altri pericoli) rappresentata dagli stati del nord. Insieme alla suddivisione per stati, il racconto segue i profili dei vari personaggi, che aggiungono pian piano elementi che, durante questa fuga verso un mondo migliore, si riveleranno essenziali. Difficile resta, durante la lettura, provare a legarsi per più di un capitolo a uno o più personaggi: per seguirlo, compatirlo o magari rimproverarlo. Lo stesso succede con Cora che, per buona parte del romanzo, rifugge qualsiasi tentativo di compassione, avvicinandosi più all’immagine di eroina dell’epica cavalleresca che a quella di schiava. Nonostante questa caratteristica, l’umanità della protagonista e degli altri personaggi vessati dalla vita e delle circostanze è abbagliante.

Gli uomini nascono buoni e poi il mondo li rende cattivi. Il mondo è cattivo dall’inizio e diventa più cattivo dall’inizio e diventa ogni giorno più cattivo. Ti usa e ti logora finché non sogni solo la morte (…) Il mondo più anche essere cattivo, ma le persone non devono esserlo per forza, possono rifiutarsi.

Whitehead, scrittore afroamericano portato in Italia prima da Mondadori, da Einaudi, e ora da edizioni sur (che ha appena pubblicato anche il suo John Henry Festival), sceglie di ambientare il sofferto racconto di Cora e di chi si trova nella sua stessa situazione nell’America schiavista per offrire uno specchio a quell’America dei giorni nostri che, soprattutto dopo il passaggio dalla presidenza Obama a quella Trump, sembra ripiombata in un grave stato di allerta e intolleranza basato su pregiudizi razziali.

Non solo. Volendo estendere il discorso a livello internazionale, questo è il periodo in cui La ferrovia sotterranea dovrebbe essere letto da tutti, nessuno escluso, per guardarci alle spalle e cercare di non lasciarci sopraffare dall’ondata di sconsideratezze o, meglio chiamarle col proprio nome, di rigurgiti fascisti e razzisti che rischiano di abbattertici definitivamente addosso da un momento all’altro.

L’unico modo per sapere quanto a lungo si è rimasti smarriti nelle tenebre è essere salvati.

Anche se sembrerebbe una storia dolorosa e senza via d’uscita, con La ferrovia sotterranea Colson Whitehead ci regala piccoli e preziosissimi attimi di speranza.

La ferrovia sotterranea, Colson Whitehead, edizioni sur, pp. 376

(traduzione di Martina Testa) 

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