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«Ma è una storia vera?»: ‘La straniera’ di Claudia Durastanti

Due giovani s’incontrano e si salvano reciprocamente. Nel racconto di uno il supereroe è il padre, nel racconto dell’altra è per forza la madre. Sono entrambi non udenti, conducono un’esistenza coraggiosa e sicuramente fuori dagli schemi e farceli conoscere è loro figlia, Claudia Durastanti, che ce li presenta così, nell’incipit fulminante de La straniera (edito da La nave di Teseo e che attualmente concorre nella dozzina del Premio Strega 2019).

Da quel giorno avevano iniziato a uscire insieme: parlavano la stessa lingua fatta di rantoli e di parole pronunciate a un volume troppo alto, ma era il loro atteggiamento ad attirare gli sguardi per strada.

La straniera è la storia trascinante di una coppia unita dall’elemento comune della disabilità e dalla voglia di affermare la propria personalità, nonostante tutto, caratteristica che li accompagnerà tra odi et amo per tutta la vita. La straniera è la storia di una famiglia numerosa e dispersa tra l’America e la Basilicata, in un crogiolo di parole mezze in inglese e mezze in dialetto, allietate dai film- sceneggiata napoletana di Mario Merola e le canzoni di Renzo Arbore, in cui una delle tante fortune di crescere in un contesto del genere possono essere vestiti e scarpe di marca comprati a Brooklyn a prezzi invidiabili e portate in Italia quando qui nessuno ce le aveva.

I disabili – qualsiasi parola per definirli è insufficiente, inadeguata – sono una maggioranza nascosta: nonostante le macchine e le protesi intente a provare che la morte non esiste, quasi tutti col tempo perderemo un super potere, che sia la vista, un braccio o la memoria. L’incapacità di fare cose che dovremmo saper fare, l’impossibilità di vedere, sentire, ricordare o camminare non è un’eccezione quanto una destinazione.

La straniera è una storia che ruota attorno al concetto di disabilità e ce la racconta, non come una limitazione, piuttosto come spinta per superare sé stessi, per farcela coi propri mezzi senza avvalersi di nessun aiuto. Neanche della lingua dei segni.

Per loro mia madre non era una vittima, e non è mai stata speciale. Ancora oggi, dopo aver fatto vite molto diverse, dopo che i miei zii hanno quasi disimparato l’italiano in sessant’anni di vita negli Stati Uniti, le parlano come se potesse sentirli, hanno queste conversazioni buffe e asincrone tipiche delle famiglie esplose.

Tanto i protagonisti di questa storia cercano la loro indipendenza con le unghie e con i denti, quanto la famiglia di origine sembra non porsi minimamente il problema di un incontro comunicativo a metà strada, così ci sono fratelli che continuano a regalare walkman alla propria sorella non udente come se questa potesse davvero ascoltare la musica. Così lei, La straniera,ci si mette d’impegno e ascolta la musica, balla, canta, si cimenta in approfondite analisi dei testi delle canzoni sanremesi seguite mediante sottotitoli.

«Straniero è una parola bellissima, se nessuno ti costringe a esserlo; il resto del tempo, è solo il sinonimo di una mutilazione, un colpo di pistola che ci siamo sparati da soli.»

Dal canto suo, il padre vuole aggirare la propria sordità diventando il protagonista di Taxi driver e porta dentro di sé una violenza e un’impulsività che più volte porteranno i due figli della coppia a fare da mediatori tra lui e la madre. Straniero è anche lui, anche se ha cominciato a viaggiare a spostarsi tra un paese e l’altro proprio grazie alla straniera. Un altro tratto in comune tra i due, oltre la loro disabilità, è l’evanescenza. Entrambi i genitori della Durastanti, infatti, vengono delineati come figure che svaniscono, stanno un po’ per i fatti loro e poi ritornano, quasi a sorpresa.

Mia madre non sopporta la finzione; quando guardiamo qualcosa sullo schermo arriva sempre il momento in cui mi chiede “Ma è una storia vera?”, anche se stiamo guardando un film dell’orrore, e io devo mentirle perché, se le dico che è tutto inventato, lei perde interesse e non riusciamo più a fare una cosa insieme. Il suo “Ma è una storia vera?” mi tormenta da sempre.

La straniera non è un romanzo: è una storia vera filtrata dai ricordi e dagli aneddoti da raccontare. C’è pochissima trama, è vero. Trama che tanto non serve perché a rendere la lettura più che godibile ci pensa quel giusto equilibrio tra racconto personale filtrato dalla letteratura ed eventi di cui è giusto tenere traccia. Con questo memoir Claudia Durastanti ci porta in un viaggio tra paesi, linguaggi, tempi e generazioni diverse.

La straniera è sì, la mamma di Claudia Durastanti, nata in una famiglia di origine lucana con alle spalle un’ampia esperienze di partenze e ritorni, ma anche l’autrice stessa, nata a Brooklyn, ma straniera due volte, durante i suoi periodi di studio in Italia e di vacanza in America, per poi ritrovarsi una terza volta straniera da adulta a Londra.

Dalla precedente esperienza letteraria di Cleopatra va in prigione, in cui raccontava della periferia romana e del suo potere di abbrutire, con La straniera, Claudia Durastanti passa a scrivere molto bene di tanta parte della sua vita e di questa sua famiglia così non convenzionale con cui esercita, non per niente, una certa fascinazione sul lettore.

La straniera è quel libro da leggere quando ci si sente soli al mondo e si ha bisogno di volti e parole fuori dagli schemi che abbiano la forza e la capacità di rimetterci al mondo.

La straniera, Claudia Durastanti, La nave di Teseo, pp. 285

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