Come il sonno, l’attesa non si può condividere, e quando lo inganniamo insieme agli altri, per esempio giocando o raccontando delle storie, lo facciamo sempre e solo individualmente.
Da almeno quindici anni viviamo nel mondo reale e virtuale del tutto e subito: aspettare ci fa male, ci insospettisce, ci indispone. Eppure il momento stesso dell’attesa è di gran valore. Ce lo ricorda Andrea Köhler, giornalista culturale tedesca e corrispondente dagli Stati Uniti per il Neue Zürcher Zeitung, con un suo saggio attualmente già tradotto negli Stati Uniti, in corso di traduzione in Spagna e di prossima uscita in Italia per add editore. Saggio che si intitola, appunto, L’arte dell’attesa. Perché sedersi ad aspettare sembra un gesto ormai troppo lontano da noi, eppure è preziosissimo e ha una sua fenomenologia che attraversa arte, filosofia e letteratura.
Ogni attesa, infatti, dipende da una voce estranea o almeno da condizioni non del tutto legate alle nostre scelte.
In poco più di cento pagine la Köhler analizza l’attesa in tutti i suoi aspetti: è appurato che si possa, anzi si debba aspettare in mille modi più uno. Ne consegue che attesa è: un’imposizione, un pezzo di angoscia pura (causato da tristezza, dolore, malattia, depressione), immagine simbolo dell’amore, un accadimento voluto, autoindotto o costretto. Uno stato, insomma, con cui combattiamo da sempre, ma non troppo. I bambini, in effetti, non sono ancora del tutto consapevoli del peso dell’attesa, non tanto da considerarla tempo perso. Hanno in dono la ripetitività delle azioni (cose come le storie della buonanotte, sempre le stesse fino a che non le imparano a memoria), così fissano dei punti cardine nel tempo.
Ma anche se i bambini non considerano ancora l’attesa come come tempo sprecato, nell’infanzia il più delle volte vissuta con un senso di impotenza. In fondo la vita ci insegna molto presto l’esercizio del rimandare: abituarci ad orari decisi da altri, controllare il proprio intestino, accettare il ritmo giorno-notte.
«Domani, bambini, qualcosa accadrà»: non sembra di sentire anche la bacchetta magica?
Ripercorrendo un filo ideale che parte da esempi di viva quotidiana, dal nostro tempo normale, fino ad arrivare alle situazioni più estreme (il logorio dell’attesa di un lavoro, lo strazio della sala d’aspetto di un dottore o, peggio, in quella dell’ospedale), nel suo saggio Andrea Köhler passa in rassegna esempi illustri dell’arte dell’attesa, ricercandoli in Nabokov, Proust, Beckett, Cioran, Benjamin e tantissimi altri tra letterati e filosofi. I loro contribuiti, vicini o lontanissimi, servono a rendere meno pesante il nostro fardello proprio della gente che aspetta e che ancora non sembra essersi rassegnata a questa condizione.
Rimandare il termine ultimo della nostra esistenza, nella consapevolezza della nostra finitezza è, per dirla con Marcel Proust, la legge crudele dell’arte.
L’arte dell’attesa di Andrea Köhler ha tutte le potenzialità per piacere (e molto) perché è un saggio che punta sull’umanità del fenomeno che analizza, non è per niente lontano dalla nostra vita di tutti i giorni: ci riflette come se fosse uno specchio, analizza tutte le tipologie di attesa (e di assenza), allunga la lista dei desideri dei libri da leggere in un futuro prossimo con tutte le opere che cita e, come ultima cosa, ma per nessuna ragione la meno importante: mette di buon umore. Lo fa raccontando la verità sulle persone, sulla vita, sul tempo stesso passato ad aspettare. Non è per niente banale. Si tratta di un saggio che scorre veloce, da leggere magari al termine di una giornata storta in cui si vede tutto nero, ed è composto da sei capitoletti che indagano i vari e diversi aspetti del momento-attesa (più o meno lungo, più o meno disperato, più o meno esperienza di crescita). Questi capitoletti sono a loro volta intervallati da intermezzi narrativi, rigorosamente riportati in corsivo, che a loro volta raccontano qualcosa in più rispetto alla parte strettamente saggistica.
Essere condannati ad aspettare, pertanto, è una maledizione, e chi la pronuncia ci tiene in pugno. Qualcuno – una persona, un’istituzione – ci impone un tempo a noi estraneo, e la cosa opprimente è proprio che il nostro senso del tempo sia in balìa di una regia estranea.
Dopo averlo letto, attendere non vi sembrerà più un’esperienza invisibile, che non si può toccare: la Köhler è stata capace di sviscerarla, farla pezzetti e tramutarla su carta. Non dimenticando le implicazioni psicologiche che un tale modo di affrontare il tempi può comportare. La differenza tangibile tra aspettare e aspettativa ad esempio:
Aspettare o aspettarsi qualcosa non è lo stesso. L’aspettativa riguarda il futuro, l’attesa è prigioniera del presente. Mi aspetto che accada questo o quello. Forse non subito, ma molto presto. Aspetto, invece che qualcosa prima o poi finisca. Forse però non finirà mai.
Insomma, che vediate l’attesa come tempo per maturare o come momento che deve sbrigarsi a finire il prima possibile, L’arte dell’attesa di Andrea Köhler è una piccola scoperta letteraria piena di ironia e voglia di trascorrere il tempo delle nostre esistenze con qualcuno che possa capire appieno come ci si sente. Poi, come dice Richard Ford proprio a proposito di questo saggio, si tratta di una lettura che arricchisce: «Un libro irresistibile che riesce a farti sentire intelligente almeno quanto lo è lui. L’ho letto due volte di fila perché quelle pagine mi facevano stare bene».
Nel migliore dei casi l’attesa è tempo regalato, più spesso rubato. Ma, sempre nell’attesa, il tempo stesso diventa stato d’animo.
L’arte dell’attesa, Andrea Köhler, add editore, pp. 126
(traduzione di Daniela Idra)
In libreria dal 19 ottobre 2017
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di notte, Mercedes Lauenstein, Voland.

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