Sarà capitato a tutti: esistono persone più carismatiche di altre e queste, la maggior parte delle volte, hanno delle amicizie che finiscono inevitabilmente per essere la loro spalla. Una presenza costante e silenziosa, in grado di bilanciare il magnetismo dell’altro. È proprio in una situazione come questa, in Vita e morte delle aragoste, il secondo romanzo di Nicola H. Cosentino appena pubblicato da Voland, che si snodano gli anni giovanili di Vincenzo Teapot e del suo amico Antonio. Il primo è protagonista di una vita piena di montagne russe, l’altro è l’aiutante sempre presente che si fa voce narrante della vita della vita dell’amico e, di riflesso, anche della sua.
Chi è Vincenzo Teapot? Un amico mio. È famoso? No. È morto tragicamente? No, vive. E allora che ce ne frega? Giusto, arrivederci. La vita dell’uomo comune vale solo una narrazione privata, la memoria di chi gli vuole bene. E io, a Teapot, volevo molto bene.
Teapot era un semplice soprannome. Anzi, un nome d’arte legato ad un aneddoto. Vincenzo raccontò ad Antonio di quella volta in cui una teiera gigante si infranse davanti agli occhi suoi e di Marco, un altro loro amico da tempi memorabili. Questa scelta di diventare Vincenzo Teapot, un termine inglese che Antonio era certo non aver mai sentito prima di quel momento, rappresenta certamente il punto d’inizio della sua narrazione privata. Perché Vincenzo Teapot era un aspirante scrittore, alle prese col primo romanzo, poi pubblicato, seppur senza tanti elogi da parte della critica, sebbene gli amici di sempre lo osannassero, e tante altre storie.
Mentre rientrava in casa pensai all’infinità di cose che faceva senza dirlo a nessuno e senza che io lo vedessi. Mi domandai dove andassero a finire tutti quei momenti in cui era il solo testimone di sé stesso. Che porzione di Teapot conoscevo? Quale lui raccontava, quale avrei raccontato io? Certi momenti della vita sono in bilico su una balaustra, a cavalcioni sul vuoto. Esistono per non esistere.
Antonio, la spalla, si fa carico di un’altra esperienza di scrittura non meno importante: volendo raccontare di questo suo amico, nella cui orbita sembra gravitasse il mondo intero, tra balzi temporali più o meno lontani nel tempo, finisce per scrivere di un’intera generazione racchiusa in un’amicizia: la loro, che dura dai tempi delle medie, abbraccia tutta quell’arco di crescita difficile e meraviglioso che è il liceo e si conclude senza scontri e clamori a pochi anni dalla fine dell’università. Se nel romanzo è il tempo ad essere diluito e dilato, stessa cosa può dirsi dei luoghi che vengono raccontati: c’è la Calabria e c’è Roma, diverse case, Primi e Secondi Appartamenti, la metro B1 che sembra un’altra città, i viaggi in treno dopo Capodanno e quelli all’estero, in Andalusia per bere sangria e vino tinto de verano e ritrovarsi a conoscere l’amore. Di donne ne ha avute un discreto numero Vincenzo, tutte con una personalità forte da poter contrastare il suo eclettismo. O almeno così sembrava ad Antonio.
Quando gli parlai per la prima volta, la prima volta da amici intendo, Vincenzo era steso sulla spiaggia a fissare le stelle. Aveva pantaloni larghissimi e una maglietta verde stropicciata, e scarpe di tela copiate a Edoardo Moscacieca, che ancora non era il fidanzato di Paola Molinari. Teneva le mani dietro la testa, le braccia conserte al contrario, a mo’ di cuscino. Era solo, il resto della classe sedeva in pizzeria coi professori. Che posto era? Capo Colonna, Pizzo, Tropea, cose così. Non c’erano gabbiani, la spiaggia era bella, il mare ancora pulito. Vincenzo era, per me, un compagno di classe strano. Divertente ma egocentrico, a volte rabbioso come certi bambini, alieno e brillante, irraggiungibile.
Se fosse un romanzo illustrato, di sicuro Vita e morte delle aragoste ricorderebbe i personaggi di Andrea Pazienza, slanciati, coloratissimi e pop. Una storia densa e vissuta, partecipata in cui i buoni sentimenti, che siano di amicizia o di amore o forse di amore per un amico lasciano spazio alla precarietà dell’esistenza: vite che vengono stravolte nell’arco di pochi mesi, lutti, semplici allontanamenti, pulsioni più forti.
D’altra parte la metafora (vera o presunta che sia) dell’esistenza dell’aragosta serve a spiegare la natura del romanzo. Dicono che le aragoste non smettano mai di crescere: quando il corpo diventa troppo grande da non poter essere più contenuto nel carapace, le aragoste, molto semplicemente, lo cambiano. Ed è quello che succede al rapporto tra Vincenzo (Vince’) Teapot e al suo amico Antonio (Anto’), che cambia e subisce un allontanamento. Ognuno per la propria strada, troppo impegnato a non vedersi risucchiato dall’altro.
E pensai, per questo me lo ricordo, forse l’amicizia cresce sempre e non smette mai, come le aragoste e come la speranza. Senza spezzarti necessariamente la gola.
Vita e morte delle aragoste, Nicola H. Cosentino, Voland, pp. 144

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